MARIA NOVELLA DEL SIGNORE

Informe Indefinito Incompiuto.
Sergio Risaliti, Firenze, maggio 2007

“Se le macchine desideranti producono, di certo non producono significati, rappresentazioni e forme. Come abbiamo già visto producono un flusso che la macchina successiva deve processare. “
R.Krauss

Sembra un vassoio. L’artista ha appoggiato su questa sottile base di lamiera specchiante una serie di sculture. Tre, quattro pezzi di cera d’api. Queste cose nate col colore del miele hanno anche un loro profumo, una loro iridescente superficie, un’aura che si deve alla loro esistenza naturale. Sono frutti della mano dell’uomo entrato in punta di piedi nel laboratorio della regina dell’alveare. Qui il mellifluo e il mieloso trapassano in valori più nobili e quintessenziali. Irradiazione di gemma e di cuore di carne. I quattro pezzi (sacri-profani) di cera pulsano e palpitano di luce interna e di forme sensuose di rosa in peina efflorescenza: pieghe, margini che si aprono e si ripiegano dentro-fuori in un esercizio di organi sessuali e piani di sensazione). C’è nella luce di queste rose di cera affogate nel tramonto del proprio splendore, il ricordo di quella calda luminosità che in molte occasioni si è irradiatata dal cero alla pelle della Maddalena. Figura della malinconia e della vanitas, la Maddalena vive segregata nell’intimo spazio del proprio desiderio e della propria esaltazione. Specchio infiammato di sensazioni e di passioni spirituali medita sull’amore, sul darsi e annegarsi in un principio fisico che allontana la carne col noli me tangere. Doppio speculare della candela accesa nella stanza, la cui fiamma evidentemente allude al matrimonio mistico tra l’amata (creatura) e l’amante (creatore) la malata d’amore brucia per godere in spirito quello che la carne non possiede non posseduta. Queste divagazioni solo per dire che la fiamma e il miele hanno un ruolo nell’opera artistica di Maria Novella Del Signore che meriterà riconsiderare. Al tempo stesso questa divagazione sull’immaginario mistico, amoroso, è intrigante perché molte forme precedenti a queste ultime s’imparentavano fino alla somiglianza con feti e feticci, con occhi e mucose. Pezzi informi di organismo e organismo a pezzi. Embrioni e residui organici, ed altro ancora. Misticamente confondendo (per un principio di anamorfosi) il sangue con il muco, la bava con lo sperma vitale, la cera con l’ectoplasma.

La cera, prescelta in quanto materia naturale, organica, da modellare senza pre-potenza in versione plastica, è stata usata dall’artista in funzione antagonista a quella del bronzo o di altri metalli patinati. Per spiegarsi meglio, l’artista ha scelto di lavorare con la cera senza forzare la sua natura e qualità, i suoi valori, le sue proprietà vitali; ha decisamente rinunciato a simulare la natura e la naturalezza, rinunciando a lavorare con un materiale tradizionale –bronzo o gesso o bronzo- e con gesti accademicamente studiati e sperimentati anche in epoca moderna quando col bronzo appunto
(penso alle figure molto informi di Matisse) o con la ceramica (vedi certe Ceramiche Spaziali di Lucio Fontana), e poi col marmo (i famosi “piedi” di Luciano Fabro) e con le resine (vedi ad esempio Cesar) si è cominciato a fare dell’informe. A praticare il piano orizzontale dell’essere e dell’esserci senza distinguera tra la verticalità ideale del linguaggio e quella funzionale della lingua, tra funzione sacra e narrazione scatologica. E quindi nel caso di queste “rose”, (le battezziamo così per celebrare la loro origine e parentela con il mondo di flora e con quello delle Muse), l’informe della cosa non è il risultato di una trasformazione formale e segnica a tutto vantaggio della nuova statuarietà del difforme. Qui il contatto con la materia, la sua manipolazione avviene per simpatia e identificazione tra la coppia di generatori o procreatori: la cera e l’artista. Guarda caso entrambi declinati al femminile. Guarda caso declassati a livello orizzontale, per cui tutto avviene sul piano di una nuova verticalità e monumentalità, che è quella impostata dal Surrealismo in poi che ha celebrato orizzontalmente grandezze e qualità e forze senza fare distinzione di alto e basso. Ma dovremmo dire che questi generatori di forma si sono spinti fino a quel bordo di sussistenza di dimensioni che solitamente si elidono o si eclissano: la vita e la morte, l’interno e l’esterno, il piacere e il dolore, il morbido e il consistente, il fluido e il resistente etc. Dicevamo di una rinuncia alla monumentalità o verticalità, iconica ad esempio, o retorica-simbolica: basta pensare al cero pasquale che sta in verticale e illumina, brucia, riscalda fino alla sua consunzione (paragonabile da una parte alla passione e resurrezione della carne in Cristo e alla vanità e morte del corpo umano). Oppure potremmo far riferimento ad altre opere pubbliche di questi decenni, cioè alla riconquistata monumentalità retorica e ideologica di tanta scultura maschile che ha innalzato forme difformi e informi riposizionando al centro della piazza e con erezioni verticali veri e propri monumenti, con l’intenzione programmata di riconquistare e ricolmare di un nuovo accademismo quelle categorie svuotate con la critica modernista all’ Ottocento e alla sua pratica monumentale.

La lucidatura a specchio su una superficie non omogenea, non perfettamente liscia, anzi aggiustata a mano, in modo da provocare delle pieghe disturba uno dei principi basilari dell’arte antica cioè la mimesis: la riproduzione o riproducibilità idealistica di un mondo ordinato e perfettamente leggibile sia dal punto di vista visibile (il significante figurativo immanente) che da quello invisibile (l’impalcatura matematica trascendente). Una serie di valori identificabile con quelli maschili dell”oggettività” e della “verità” stessa della pittura come poi della fotografia: chiarezza, incisività, controllo visivo, ordine e misura, leggibilità anche della armatura logica o noumenica interna alle forme stesse.
Dal punto di vista epistemologico la base cioè funziona come corrispettivo di un piano orizzontale (quello della realtà universale) o di una dimensione spaziale che è informe, nel senso in cui si parla di forme indeterminate e non omogenee, di universo aperto, o struttura caosmotica. Ma la stessa serie di nozioni va applicata, sul piano fenomenologico, al piano della coscienza e quindi dell’esperienza, che qui sarebbe anche rispecchiamento della realtà esterna al vissuto, perché poi vedremo che questo vissuto, questa coscienza di sé gettata nel mondo o coscienza dell’altro e del mondo, è rappresentata nelle sculture, un grumo di cera malleabile sciolta prima col calore e che è stato poi scolata, impastata, stesa, manipolata e infine fissata in forme che sono certo informi ma anche belle come un fiore o una pianta esotica. Ecco detto in poche parole quello che noi vediamo e intuiamo esserci rapprsentato in questa installazione e in questi primi oggetti di cera. La nostra vita, il nostro vissuto, il mondo fisico ma anche l’universo quotidiano, la realtà insomma, in cui viviamo e siamo vissuti. Il grumo cioè rappresenta anche l’immerso e il sommerso, tutto quello che siamo o siamo stati e non riusciamo a rappresentarci se non come materia malleabile e manipolabile che passando dal caldo (della vita e dell’esperienza) al freddo del ricordo e della memoria, dalla vitalità docile e plasmabile della sua infanzia, alla fissità di feticcio e di residuo propria del vissuto latente nel ricordo e nella memoria. Ma sia nel caso delle qualità a freddo che in quelle a caldo si tratta comunque di qualità femminili. Il materiale e la serie di esperienze formali a cui è sottoposto e che invece di celare o nascondere o dissimulare questo materiale, trasformato in qualcosa che vuole e sa assomigliare ad altro ma principalmente intende essere una forma in sé o del sé, tutte riporta ad evidenza, ecco questo materiale così caratterizzato e metamorfizzato processualmente è in funzione del femminile e in relazione al femminino. Potremmo a questo proposito citare poche ma incisive frasi di Rosalind Krauss dove si parla di espressione artistica femminile. Così scrive l’autrice americana: “ Nel preciso momento in cui il velo viene sollevato, mentre il feticcio viene strappato, il contenuto mitico del significato impacchettato –il mostruoso femminino-, non di meno, emerge per andare a occupare il campo verticale dell’immagine/forma. La verità della ferita viene, dunque, rivelata“. Un’arte quella femminile che alla Krauss appare essere realizzata non in funzione di Narciso ma del Minotauro. Così dicendo l’autrice sposta il discorso dal piano della visibilità mimetica e del riflesso o rispecchciamento classico tra io e mondo, a quello della conoscibilità perturbante della verità nel labirinto dell’io e del linguaggio. Così spiega la ragione di un declassamento e di un ribaltamento di valori, di un nuovo riposizionamento della prospettiva e delle categorie, e cita a proposito molti esempi di artiste che con una serie di gesti al tempo stesso sacri e scatologici hanno alterato il rapporto tra alto e basso, tra sacro e profano, tra forme e informe o quelli tra aura della bellezza e fascino del perturbante. Tra queste ovviamente la Louise Bourgeois, Eva Hesse, Cindy Scherma e Francesca Woodman.

Il lavoro sulla base specchiante e quello su l’informe del soggetto e del significante, rinviano in un caso alla scultura di Brancusi, e nell’altro sia ad artisti informali (da certe cose di Giacometti fino ai quadri di Dubuffet e di Wolfs) che a produttori d’informe (nel senso in cui è stato descritto dalla Krauss e da Yve-Alain Bois in occasione della mostra Informe: istruzioni per l’uso, cioè di quelle forme universali o dell’universo, anche di quello dell’arte, che non rassomigliano a niente, ovvero che equivalgono a qualcosa che è come un ragno o uno sputo – perché così scrive Bataille a proposito della nozione di informe). Tra le pieghe del marmo liquefatto dall ardente passione del misticismo di Bernini e l’interesse per l’informe caos di acqua e terra testimoniato in qualche disegno di Leonardo esiste una qualche relazione carsica che attraversa la psiche, il mondo della reverie, per tornare a noi in forma d’arte. Dobbiamo immaginare l’artista, (in questo caso figlia di artista -futurista- vissuto a Firenze), attraversato da pulsioni, sensazioni, immaginazioni, concetti. Allora la distanza nel tempo e nello spazio si riduce. Siamo sempre affrontati dalla stessa schiera di forze vitali, dal linguaggio informe della vita. Scienza e arte si aiutano reciprocamente nella riorganizzazione formale dei dati emersi dal flusso di sensazioni e immaginazioni oniriche.

La ricerca artistica di Maria Novella Del Signore, a mio avviso, si è sempre orientata in questa doppia direzione. Dal punto di vista dell’episteme ha accettato, partendo da una posizione creativa e filosofica, come proclama discreto di una positività femminile, le nuove teorie scientifiche del secondo Novecento, in particolare quelle che hanno proposto la visione di un mondo aperto e le nozioni speciali di indeterminismo ed entropia. Maria Novella Del Signore si è mossa fin dall’inizio rivendicando per se, come donna del XX secolo e oltre, e per la propria disciplina artistica una capacità di decifrazione del reale antagonistica e critica nei confronti del pensiero classico: di quel pensiero cioè che ha sempre corrisposto ad un logos tutto maschile, ideologicamente e simbolicamente forte, monarchico, impositivo. Un pensiero, tutto razionale e deterministico, onnisciente e onnipresente, che dall’alto del suo panopticum (come Narciso) e al centro del suo labirinto (come Minotauro) ha caratterizzato da secoli le forme di rappresentazione e le strutture di potere definendole sempre al maschile. A questo sapere classico e plurisecolare l’artista fiorentina ha contrapposto una nuova tradizione scientifica e filosofica, quella che sul piano dell’arte è servita ad aggiungere scientificità a rivoluzioni artistiche d’avanguardia nate per criticare modelli e canoni estetici e poetici idealistici e accademici. Ovvero Maria Novella Del Signore ha fatto proprie tutte le nuove teorie sullo spazio aperto e l’indeterminismo, sul caos e l’imprevisto, il caso e l’entropia: tutte teorie che in ambito scientifico e filosofico sono emerse a partire dagli anni Cinquanta del XX secolo. Rileggendo i testi di Popper e quelli di Prigogine, due tra i molti padri di questa nuova epoche epistemologica e logica, ci si può fare un’idea su come e su cosa lavora l’artista allorchè mette mano alla natura “indeterminata” o “disordinata” della materia e dell’energia, della luce e del movimento. Cioè quando lavora sulla complessità, oppure sulla apertura dei sistemi viventi e sulle leggi che ne regolano l’evoluzione e la trasformazione a livello microscopico e macroscopico. Penso che tutto questo lavoro sull’indeterminazione sia anche un modo di sperimentare una diversa esperienza o gnosi dello spazio e del tempo. Spazio e tempo che sono anche agiti e modellati da movimenti e giochi, di luce e di suono, anch’essi “spontanei”, casuali, imprevedibili, eventi, o meglio dimensioni che possono risultare disturbate e alterate da questa ragione d’essere disordinata o da questa legge interna scritta da una natura che non corrisponde e non risponde a nessun deus ex machina superiore.

Su un piano fenomenologico e magari psicologico è chiaro che il discorso attiene la vita dell’ego e dell’es, dell’in-conscio e del pre-conscio. Si tratta di relazionare questi principi di in determinatezza, alterazione, caoticità eccetera all’evento psichico e al vissuto e poi alla funzione del linguaggio del corpo, dei sessi, al desiderio e al piacere, o all’inverso al dolore e all’istinto di morte. Insomma a tutte le dimensioni dell’esserci che nel tempo e nello spazio tra vita e morte, coscienza e incoscienza, libido e speculazione si strutturano intorno ad un vuoto, si fanno forma e linguaggio dentro ad un pieno, gesto e espressione attraverso un principio o un movimento generativo e degenerativo che è appunto indeterminato e caotico, Tutto un procedere per invenzione di forme e conquista di materiali e fonti di energia e movimento che neanche troppo dissimula una critica femminile al logocentrismo maschile. Opponendo a questo razionalismo del pensiero (prensile, cannibalesco, padrone) un sentire fluido e incompiuto, non finito e non definitivamente formato, un flusso di sensazioni e percezioni e ricordi che non finisce mai di essere l’uno e latro, il pieno e il vuoto, il dentro e il fuori, immobilità e movimento, luce e buio. In questo senso sono esemplari certe sue costruzioni o organizzazioni di eventi installativi dove assieme a forme plastiche corrispettive di cose, materie, organiche in cera o vetro, o ceramica, che fissano senza spengerlo o spianarlo il movimento dell’acqua o quello di sete e lenzuoli, una serie di elementi tecnologici che gettano fasci discreti e non omogenei di luci e di suoni che si stagliano sopra o sotto le sculture come piccole città satellite sospese nel vuoto o appese nella notte. Suoni e luci, e tutto un universo di riverberi e sfocature, di luccichii e tremolii, e quindi una sinfonia di rumori e di materiali sonori fruscii e echi fluidi, alterati, informi (secondo le nozioni sopra espresse), che valgono ancora una volta sul piano della conoscenza e della sensazione, del mondo dei fatti e dei fatti della psiche. In particolare sarà da notare che queste sculture lenzuolo o deserto di dune sono come l’acqua che scorre e come questa scivolano su un piano ovvero sul corpo e sembrano corpi e piani disciolti nell’acqua e nel fluido come i pensieri e i desideri che come i corpi e i piani che strutturano un corpo si dissolvono assieme all’io nel tempo e nello spazio oppure ecco riaffiorano increspando la superficie visibile e informe del mondo, il margine tra il tempo della vita e quello della morte, lo spazio anamorfizzato del desiderio e quello della sua negazione.

Sembra un dormiente. Sembra la madre terra o una terra che vive in un corpo e un corpo che è sabbia e flusso pneumatico. L’ultima sua installazione, una monumentale installazione orizzontale, completamente distesa a terra, non solo perché possa essere come la terra, o una spiaggia, ma anche perché ricordi un corpo supino che in terra o già sotto terra inspira e espira, cioè respira come il mare o una sabbia percorsa da energia sottocutanea. Sembra che la sabbia qui possa alludere come sempre al tempo che scorre, all’entropia, al lavorio del vento che trasforma lo spazio del deserto. Sembra che la sabbia, polvere bianca, gessosa, voglia alludere o essere la materia di cui è fatta storicamente la scultura. Una materia preservata e mantenuta qui ad uno stadio fluido, semigassoso. E nuovamente ancora una volta tutto procede in modo da essere o sembrare imprevedibile e indeterminato anche se poi questo caos di onde e di riflussi, di innalzamenti e inabissamenti è il risultato di una calcolatissimo ingegneria meccanica. Etereo e fluido non sono qui da leggere come aggettivi ma come sostanza formale e principio di forma. Si trova qui qualcosa di più e di meno di una messa in scena. Quasi un’immedesimazione tra due o più esseri, o come dice Deleuze in Rhizome, un ripiegamento in uno stesso essere dell’orchidea e della farfalla, del vascello e dell’onda, del nomade e della duna di sabbia.

Infine quello che induce a riposare per un attimo sul posto i nostri passi di viandanti, pensosamente concentrati davanti a questa macchina-monumento, non è il fascino della macchineria ( quella seducente bellezza un poco animale della macchina celibe o del desiderio macchinico, quella costruita prima da Duchamp e poi da Deleuze- Guattari) quanto piuttosto la immedesimazione tra vita e agonia, tra energia e entropia, tra risveglio e perdita che qui trova una forma in cui riprodursi e potersi praticare. Siamo comunque affacciati e protesi sul piano orizzontale del vissuto e del conoscibile, comunque sul bordo di due dimensioni, tra la Sindone e il calco, tra il fagotto e il sudario, tra la culla e il letto dell’agonia. Mentre l’arte ci perturba e ci disturba la scienza ci sveglia e ci spiega. Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Tocca a noi spingersi un poco oltre di qua e di là, ma sempre oltre la linea di dominio del pensiero dominante.